Macellerie, mercati, supermercati, mense, ristoranti, osterie, trattorie. Tutte queste tipologie di attività economiche ci propongono ormai una vastissima offerta di carni, di preparazioni e di prodotti a base di carne, oltreché di piatti di carne. Il Decreto ministeriale del 6 agosto 2020 ha introdotto l’obbligo di dichiarare l’origine delle carni suine sia fresche che oggetto di preparazioni e di prodotti a base di carne, ma lo ha escluso se le carni non vengono confezionate o preincartate, se vengono servite sottoforma di cibi in ristoranti e mense, se diventano prodotti IGP (Indicazione geografica tipica).

Per quanto riguarda le carni bovine, ovine, caprine e avicole non vi è neanche qui nessun obbligo di dichiararne l’origine da parte dei ristoratori, mentre un tale obbligo verrà introdotto in Francia a partire da marzo 2022. I prodotti IGP ancora una volta non hanno l’obbligo di indicazione della provenienza delle carni, ma solo quello del rispetto della territorialità nella produzione e delle tecniche tradizionali indicate nel Disciplinare. Si arriva così ad avere prodotti a base di carne con marchio IGP realizzati sì in Italia con antiche tradizioni di lavorazione, ma con carni che di italiano spesso non hanno nulla. La rincorsa della carne a prezzi bassi ha portato non solo al proliferare di immensi allevamenti intensivi, ma anche al disboscamento delle foreste pluviali, soprattutto per la produzione di carne bovina. Oggi oltretutto almeno il 30 per cento dei suoli coltivabili e’ occupato da allevamenti con costi ambientali altissimi, ma quello a cui non si pensa e’ che un’altra grande quota di terreni ospita colture come soia e mais destinati al nutrimento degli animali da allevamento, con un bilancio in termini di produzione di proteine largamente fallimentare; infatti per produrre un chilo di carne occorrono diversi chili di proteine vegetali sottratte così al consumo umano. Si stima anche che in media per produrre un chilo di carne bovina si debbano utilizzare ben 15.000 litri di acqua per la maggior parte impiegata nella coltivazione di soia e mais, nutrimento degli animali.

Avere carne a basso costo monetario comporta, come si diceva sopra, un alto prezzo ambientale e la politica della nostra Unione Europea favorisce tutto ciò, stringendo accordi con Paesi del Sud America allo scopo di avere carne a buon mercato. Il Mercosur è un trattato che alcuni Stati sudamericani hanno stipulato a partire dal 1991 tra loro allo scopo di sviluppare l’agricoltura e favorire il libero scambio di merci. L’UE sfruttando tale trattato vuole garantirsi derrate alimentari a basso costo, ma così facendo favorisce la distruzione delle foreste pluviali, le quali devono fare posto ai pascoli e ai campi di soia e di mais: quei terreni privati degli alberi sono assai poveri e in pochi anni si trasformano in un arido crostone rosso improduttivo. Accennando anche al fatto che in questi Paesi è permesso usare in agricoltura prodotti chimici vietati nell’UE, non ci sarà da chiedersi quanto alto sia invece il costo ambientale e salutistico di simili scellerate politiche? A questo punto consumare su larga scala carne coltivata in laboratorio avrebbe forse più senso sia in termini di rispetto dell’ambiente, sia in termini salutistici ed etici ( rispetto degli animali). La carne coltivata in laboratorio, presentata al pubblico per la prima volta nel 2013 aveva costi proibitivi, di oltre 500.000 dollari al chilo, ma oggi è già scesa a circa 50 in media. Si premette che in laboratorio si produce vera carne: è ora possibile riprodurla con tutte le varie strutture dell’animale, ma non mi pare che siano ancora presenti il ferro e la vitamina B12, e per ora non abbiamo ancora tutti i tagli a disposizione né tutti i tipi di carne. Ma come si produce la carne coltivata? Prelevando con biopsia indolore da un animale vivo alcune cellule staminali e coltivandole dentro un cosiddetto bioreattore, nutrendole con siero embrionale bovino. Si premette che il liquido embrionale non è economico, ma soprattutto non è sostenibile eticamente in quanto comporta sempre la morte dell’animale e il prelievo del siero dal feto che aveva in grembo. Nonostante che con una singola cellula si possa produrre una quantità enorme di carne, la morte di molti animali è ancora inevitabile al fine del prelievo di siero fetale, anche se è una piccola parte di quei miliardi di animali macellati annualmente in tutto il mondo, per non parlare di quanti ne muoiano prima di arrivare alla macellazione.

Il siero embrionale può però oggi essere sostituito da un siero proteico vegetale, molto meno costoso, così da non provocare sofferenza e morte di animali. Le condizioni spesso negli allevamenti intensivi sono terribili: animali costretti in spazi minimi, ammassati, sguazzanti negli escrementi, trattati con antibiotici perché non si ammalino e fonte di possibili trasmissioni di malattie infettive agli esseri umani. La carne coltivata potrebbe azzerare la sofferenza animale e abbattere l’inquinamento e il consumo dei suoli, nonché minimizzare il consumo di acqua, anche se alcuni ricercatori affermano che su larga scala si abbatterebbe la produzione di metano come gas serra, ma si produrrebbe molta anidride carbonica. A Singapore e in Israele la carne coltivata è già in vendita, ma in futuro anche pesce, uova, latte si potranno produrre in laboratorio. Personalmente accetterei da subito questi alimenti proteici coltivati che anche sotto il profilo salutistico, prodotti sterilmente e da vere cellule, sarebbero paradossalmente esenti da tutti quei contaminanti che possono residuare dagli allevamenti intensivi. Al contrario, i critici affermano che può essere pericoloso affidare la produzione di cibo esclusivamente alle industrie e ai loro laboratori, sottraendone la produzione agli allevatori e agricoltori.

Ma davvero questa carne senza animali risulta essere più salutare? Lo si potrà dire con certezza solo dopo molti anni dal consumo su larga scala. Comunque sia, se da domani sostituissero tutte le carni e i prodotti a base di carne in vendita al pubblico con carne coltivata in laboratorio, quanti nell’immediato se ne accorgerebbero? Ormai in vendita e nel piatto vediamo solo il singolo pezzo di carne o il prodotto a base di carne, non certo l’animale. La necessità di nutrire un’umanità fatta di miliardi di individui e la mancata sostenibilità ambientale degli allevamenti intensivi, nonché la sensibilità verso la sofferenza e la morte degli animali, stanno portando verso il cambiamento della produzione di cibo.

Gli allevamenti intensivi forse scompariranno, ma gli animali allevati non spariranno del tutto, restando magari solo per produzioni di nicchia e di qualità, con animali liberi al pascolo che rientrano in stalla solo in condizioni climatiche difficili, per ripararsi e nutrirsi. L’aumento della popolazione mondiale comporterà molti cambiamenti, compreso quello del consumo di carne, sia nella quantità che nel tipo.